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«L’ideale sarebbe non alimentarle affatto»

30/03/2020 / Manon Wallenberger
Chi lavora con le api non finisce mai di imparare, afferma l’apicoltore Klébert Silvestre. Alleva api nere nelle Alpi francesi, portando avanti, incurante delle numerose sfide, un’antica tradizione di famiglia.
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Klébert Silvestre interviene il meno possibile sui suoi alveari. (c) Caroline Begle

Signor Silvestre, lei ha 150 alveari. Che cosa lo affascina dell’apicoltura?

Soprattutto il piacere del lavoro con la natura.  L’apicoltura è una combinazione di lavoro  intellettuale e lavoro  fisico.  Fisico perché devo sollevare e portare gli alveari. Ma devo anche stare  attento a quello che faccio, perché lavoro con insetti vivi. Rifletto sul da farsi, osservo il meteo e i periodi di fioritura. Lavorando con le api vivo con il ritmo della natura.

Qual è la sfida intellettuale nel lavoro con le api?

Bisogna  imparare  come  funziona  un  alveare.  A seconda delle  stagione  e  della  condizione  della  colonia  devo  decidere  se  intervenire o meno – e che cosa fare esattamente.  Occorre  conoscere  le  malattie  delle  api,  lo  sviluppo  delle  regine  e  degli  sciami. C’è molto da imparare. Noi uomini lavoriamo da secoli con le api e sappiamo molto, ma  non  tutto.  Continuiamo  a  fare  scoperte  sull’apicoltura,  che  cambia  continuamente.  Da un anno  all’altro  le  stesse  cose non funzionano più; perciò dobbiamo capire il perché.

Lei è particolarmente interessato all’ape nera. Perché?

Perché è una specie locale di ape mellifera, allevata già dai miei nonni. Sarebbe un bene se riuscissimo a conservarla anche per i nostri  figli,  perché  è  un’ape  che  si  è  adattata  alle  nostre  condizioni  ambientali  e  che,  a  confronto con altre specie, è più vicina alla natura e più robusta. E per me questo è in sintonia  con  lo  sviluppo  sostenibile.  L’ape  nera è adatta alla nostra regione di montagna. In inverno, a differenza di altre specie di  api  mellifere  che  si  troverebbero  in  difficoltà, è in grado di passare sei mesi sotto la neve. Nella nostra regione la regina smette di deporre uova verso la fine di settembre e riprende  verso  la  fine  di  febbraio.  Per  cinque  mesi  niente  fiori  e  niente  deposizione  di  uova.  La  colonia  deve  quindi  rimanere  nell’alveare,  consumare  meno  miele  possibile,  avere  una  consistenza  numerica  non  eccessiva, e soprattutto, attivarsi in primavera solo dopo lo scioglimento delle nevi.

Quest’ape esiste anche in altre regioni?

Originariamente,  l’ape  europea  nera  «Apis  mellifera mellifera» era diffusa in tutta l’Europa  occidentale.  Esiste  anche  in  altre  regioni e paesi dove si è adattata localmente. E’ presente ad esempio nell’isola di Ouessant, nel nordovest della Francia. E’ la stessa  specie,  ma  è  completamente  diversa  dell’ape nera delle regioni di montagna. Si è  adattata  alla  Bretagna  e  alla  sua  piovosità, ma non è in grado di gestire l’inverno prolungato delle regioni di montagna.

Lei dice che l’ape nera nella sua regione è minacciata. Da cosa?

L’uomo  ha  importato  specie  alloctone  di  ape  mellifera  da  altri  paesi,  come  l’Italia  e  la  Grecia.  Poiché  l’accoppiamento  delle  api  avviene  in  volo,  le  nostre  «dame  nere»  continuano ad essere fecondate da queste specie non autoctone. In tal modo perdono il loro adattamento genetico alle condizioni ambientali del luogo. Una delle cause è la commercializzazione   dell’apicoltura,   che   favorisce  altre  api  mellifere  più  produttive.  Promettono  più  miele  e  colonie  di  api  più  facili da gestire. Perciò perdiamo le nostre api nere. Pensiamo ad esempio al cambiamento  climatico:  le  api  nere  sono  sopravvissute  a  due  glaciazioni.  E’  quindi  immaginabile che siano più adattabili di altre api mellifere. Se noi esseri umani glielo permettiamo,  lo  faranno  anche  in  futuro.  I  nostri  interventi ne rompono il ciclo di adattamento.  Se,  per  esempio,  le  alimentiamo,  privilegiamo  determinate  specie  di  api.  Anche  le  api  nere  vengono  alimentate,  ma  meno  di altre specie. L’ideale sarebbe evitare del tutto  di  alimentarle.  Noi  stiamo  lavorando  per conservarle più vicine alla natura e più adattabili possibile.

Leggiamo e sentiamo continuamente parlare della moria delle api e del calo di insetti. Che cosa ha a che fare questo con noi umani?

Non me ne intendo più di tanto perché vivo in montagna, a 1.500 m s.l.m., dove abbiamo  meno  problemi  con  pesticidi  e  insetticidi.  Anche noi abbiamo l’inquinamento dell’ambiente e una perdita di biodiversità, ma in  misura  minore rispetto alla pianura, dove ho dei colleghi con problemi veramente seri.  Le loro api muoiono a  causa  di pesticidi, insetticidi e per la perdita della biodiversità, perché le superfici coltivate aumentano continuamente – soprattutto le monocolture – così come le strade e i parcheggi.

Lei è vicepresidente dell’associazione europea per la conservazione dell’ape nera (Fedcan). Qual è lo scopo di quest’associazione?

La nostra associazione, fondata nel 2016, ha come obiettivo di mettere in rete tutte le stazioni di protezione e di ricerca che in Francia in parte anche in Svizzera e in Belgio si occupa dell’ape nera.  Vogliamo creare delle aree  protette per le api nere.  In Francia non abbiamo ancora le basi giuridiche per un’iniziativa del genere. Fedcan s’impegna a favorire la protezione di superfici di circa dieci chilometri  quadrati.  Il nostro comune, ad esempio, ha una superficie di 22.000 ettari. Se le leggi lo permettessero, si potrebbe farne un’area di rifugio per l’ape nera. Si tratta anche di scambiarsi le esperienze, di definire zone centrali e zone tampone.  E di rispondere ad alcune domande: quanta superficie ci vuole?  E quanti alveari?  Noi lavoriamo con ricercatori del «Centre National de la recherche scientifique» a Parigi. Secondo loro in una zona di rifugio del genere ci devono essere almeno da 150 a 200 alveari. Noi facciamo analisi genetiche e verifichiamo se in questa popolazione esiste una certa variabilità genetica o meno.

In quanto apicoltore lei è impegnato a favore di un’apicoltura sostenibile. Che cosa dobbiamo intendere per apicoltura sostenibile?

Se parliamo di apicoltura sostenibile, intendiamo alveari che vivono con il minor numero d’interventi umani possibili e più vicini alla natura possibile. In linea di principio offriamo un tetto e un posto per le api.  Di contro le lasciamo in pace e non le disturbiamo ogni minuto. Nel periodo di cova, in piena  estate, la temperatura nell’alveare è di 35°C, ventiquattr’ore su ventiquattro.  Se interveniamo, la covata prende  freddo.  Apicoltura sostenibile significa anche raccogliere meno e lasciare alle api miele a sufficienza perché possa sopravvivere in inverno.  Questo è difficile anche perché ci sono una pressione economica e una competizione fra gli apicoltori.  Se dico a qualche apicoltore anziano che lascio il miele alle api, invece di alimentarle con zucchero, mi rispondono: «Ma un chilo di miele costa quindici Euro, un chilo di zucchero invece solo 1 Euro.». Chiaramente non è facile da capire per loro.

Come tratta le colonie ammalate?

Abbiamo un problema con un acaro, la varroa. Quando lasciamo che le api facciano il loro lavoro, molte colonie muoiono nei primi  anni.  Ma poi svilupperanno la  resistenza.  L’obiettivo quindi è quello di portarle ad arrangiarsi autonomamente.  Facciamo pochissimi trattamenti. Io ad esempio sono un bioapicoltore perciò da più di dieci anni non uso più prodotti chimici nei miei alveari.

Un’apicoltura sostenibile a livello alpino sarebbe pensabile?

Sì, certamente! Si può praticare ovunque e noi la promuoviamo.  Perciò organizziamo corsi in cui cerchiamo di spiegare agli apicoltori perché e come farlo.

Quale può essere il contributo dell’apicoltura alla protezione della diversità apistica in genere?

Questa è una domanda difficile. Così come c’è un eccessivo sfruttamento dei pascoli, possono esserci anche troppi alveari in un posto. Questo danneggia le api selvatiche, ad esempio i bombi. L’obiettivo quindi non è quello di piazzare alveari ovunque.  Perché possano esserci delle api selvatiche, è necessario che ci siano sufficienti spazi privi di alveari. In un luogo andrebbe quindi piazzato solo un certo numero di alveari, mai troppi.  In  questo  modo si evita un’eccessiva concentrazione di colonie.

 

Fonte e ulteriori informazioni: www.cipra.org/alpinscena

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